Un libro può essere un’opera d’arte. Anni trascorsi tra i reminders ingialliti, esposti sulle bancarelle dell’usato, e i tomi smangiucchiati e scollati delle biblioteche, mi hanno portata a dimenticarmi dell’estetica, a scordarmi che un testo può essere “bello”. Il volume Racconti dei saggi del Giappone di Pascal Fauliot (L’Ippocampo, 2008) è un vero piacere per […]
AINU – IL POPOLO DEL NORD
“Ainu” è il nome di una popolazione indigena del Giappone. Infatti, nonostante si pensi che nel Paese del Sol Levante ci sia una completa uniformità etnica composta dai Wajin (giapponesi), sono esistite e talvolta ancora esistono, delle varietà etniche, come quella rappresentata dagli antichi abitanti di Okinawa o, appunto, dagli Ainu. Sin dal periodo Jomon (12,000 – 2500 AC) essi hanno vissuto nella regione settentrionale chiamata comunemente “Hokkaido”, oltre che nel Nord dell’Honshu, sull’isola di Sachalin e sulle isole Curili.
Gli Ainu erano soliti vivere in villaggi (kotan), in armonia con la natura: praticavano la caccia, la pesca, la raccolta di prodotti naturali e l’agricoltura. Si impegnavano anche nel commercio marittimo, esportando prodotti in seta e raffinati manufatti in vetro. La loro era una religione di tipo animistico, cioè che riconosceva il sacro in ciò che apparteneva al mondo naturale. Portatori di una cultura unica all’interno dell’arcipelago nipponico, essi avevano anche una propria lingua.
A partire dall’epoca feudale, i crescenti contatti culturali e commerciali coi giapponesi, influenzarono reciprocamente i due popoli, seppur col passare del tempo, gli Ainu furono sempre più sfruttati e impoveriti. Col periodo Kamakura i Wajin rafforzarono la loro presenza nella regione settentrionale finendo per limitare le libertà e gli spazi degli Ainu. La coesistenza arrivò anche a punti di rottura, dove schieramenti di giapponesi e Ainu si diedero battaglia per il controllo del territorio, come avvenne per la battaglia di Koshimain (1457) e di Shakushian (1669). Usciti sconfitti dagli scontri, gli Ainu si trovarono sempre più dentro la sfera di controllo socioeconomico del clan Matsumae, il quale, a partire dal 1604, aveva ricevuto pieno potere dallo shogun Tokugawa Ieyasu per le zone interessate. Il clan Matsumae riorganizzò il territorio dividendolo tra “Wajinchi” (insediamenti giapponesi a meridione) e “Ezochi” (insediamenti “del resto” di Hokkaido). Dato che nel Nord era difficile far crescere il riso, gli Ainu divennero sempre più dipendenti dai giapponesi, seppur gli fosse permesso di commerciare con loro solo attraverso canali ufficiali., i cui tassi di cambio erano spesso sfavorevoli.
Fu specialmente nelle zone di confine che gli Ainu, a volte aiutati da qualche mercante, cercarono di entrare in contatto coi giapponesi per cercar di far valere le loro ragioni e migliorare le loro condizioni. Sono in queste aree che si diffusero indumenti e oggetti della cultura Ainu, come “Attusi” (vestiti ricavati da fibre dell’olmo della Manciuria), “Chikarukarupe” (indumenti di cotone), ma anche intarsi, vasellame ed altri manufatti quali “Ikupasuy” (un bastone rituale per offrire sake agli Dei). Anche strumenti musicali come “Mukkuri” (simile ad un’arpa), “Tonkori” (a cinque corde), “Yukar” (storie tramandate oralmente) e danze tradizionali. Inoltre, rituali religiosi come “Icharupa”(onorare gli antenati) e “Iomante” (“rimandare indietro” gli spiriti degli orsi) erano alla base della vita religiosa degli Ainu.
L’ultima sollevazione armata degli Ainu si ebbe nel 1789 ma, sconfitti, essi non poterono che assistere come spettatori al passaggio del Giappone all’età moderna in cui, anche per far fronte a possibili rivendicazioni della Russia sui territori settentrionali, venne deciso che, senza tener conto della distinzione con l’Ezochi, tutti gli abitanti della regione a Nord erano de facto giapponesi e che il nome dell’isola sarebbe stato “Hokkaido”. Gli Ainu si trovarono liberi dai loro vincoli socioeconomici, ma per sopravvivere dovettero fare i conti con una cultura dominante che esigeva la loro assimilazione: data la regolamentazione sul possesso delle terre, agli Ainu fu impedito l’accesso alle zone in cui tradizionalmente cacciavano, pescavano, e raccoglievano prodotti naturali. Le loro pratiche sociali furono vietate, mentre fu favorito il graduale disuso della loro lingua a favore del giapponese. Ciononostante, differenze evidenti coi Wajin li portarono ad essere a volte discriminati alla stregua di una casta inferiore. A tale riguardo, la messa in legge dell’atto per la protezione degli ex-aborigeni dell’Hokkaido nel 1899, seppe solo sensibilmente migliorare il loro tenore di vita.
Dopo il secondo conflitto mondiale il governo introdusse misure atte ad alleviare le difficoltà della comunità Ainu, costruendo per loro luoghi di ritrovo e garantendo loro servizi speciali, così da contrastare fenomeni di povertà ed esclusione sociale, ma con pochi risultati. Fu verso il 1975 che, in seno alla comunità Ainu, prese campo un movimento che seppe dare nuova vita ai loro rituali tradizionali (come “Icharupa” e “Iomante”), oltre che promuovere l’insegnamento della loro lingua. Nel 1997 poi venne approvato l’”atto per la promozione culturale degli Ainu”, secondo cui le nuove generazioni poterono studiare il loro idioma e partecipare a scambi con altre comunità indigene, al fine di rafforzare la propria identità. Sebbene non esistano più insediamenti di soli Ainu, la maggior parte di loro vive ancora nell’Hokkaido insieme ai giapponesi. Sono pochi quelli che ancora sanno parlare correntemente il loro idioma, anche se certe parole in lingua Ainu vengono pronunciate nei loro discorsi.
Inoltre, recentemente, un anime (cartone animato) giapponese chiamato “Golden Kamuy” la cui trama ruota attorno alle avventure di un soldato giapponese e di una ragazza Ainu nei primi anni del novecento, ha aiutato a far ulteriormente conoscere e sensibilizzare il grande pubblico verso la storia e la cultura di questo popolo indigeno del Giappone.
Nonostante lo stile di vita sia divenuto molto simile a quello dei giapponesi, la comunità Ainu continua tutt’oggi a preservare e promuovere la propria lingua e tradizioni.
Marco Furio Mangani Camilli
24 agosto 2019Bentō
Bentō (弁当 bentō) è un portapranzo da asporto, parte della cucina giapponese. Un bentō tradizionale contiene riso o noodles, pesce o carne, con verdure in salamoia o cotte, inserite in un contenitore. I bentō sono disponibili in molti luoghi in tutto il Giappone, come konbini (minimarket aperti 24h), bento shops (弁当屋 bentō-ya), stazioni ferroviarie e grandi magazzini. […]
Il divin sake
Un tempo offerta dei templi shintoisti, oggi alcuni suoi riti sopravvivono alla storia. E’ la bevanda che più rappresenta la tradizione giapponese. Anche in Italia. Non si può fuggire dal Giappone. E’ un modo di essere che accompagna la loro vita ovunque si trovino. Leggi tutto “Il divin sake”
La porcellana cinese
Per bere una buona tazza di tè l’ideale è utilizzare della fine porcellana, magari quella cinese. La porcellana è ceramica vetrificata e si tratta di argilla mescolata con determinati minerali, in modo che, esposta al fuoco, si fonde o si trasforma in una sostanza traslucida, ma non trasparente, che rassomiglia al vetro.
La porcellana nel periodo Tang
Sotto la dinastia Tang (618-907) crebbe la popolarità del tè e questo fece aumentare anche lo stimolo creativo della porcellana. I cinesi riuscirono a creare vasi vetrificati non soltanto sulla superficie verniciata ma anche internamente. I cinesi per fabbricare la porcellana usavano principalmente due minerali: il caolino, pura argilla bianca formata dalla decomposizione del feldspato di granito, e il petun-tse, un quarzo bianco fusibile, che dà al prodotto la sua traslucidità. Questi materiali venivano ridotti in polvere, lavorati con acqua in modo da ottenere una pasta, modellati con la mano o sulla ruota e sottoposti ad alte temperature, che trasformavano la composizione in una forma vitrea brillante e durevole. A volte i vasai ricoprivano la pasta, non ancora cotta, con una vernice e poi lo cuocevano in forno. Altre volte la applicavano dopo aver fatto cuocere la pasta due volte, ovvero producevano la porcellana Biscuit, nata in Cina nel XVII secolo. Queste vernici erano smalti fatti da con vetro colorato ridotto in polvere dal quale si otteneva poi un liquido applicabile con il fine pennello del pittore. Venivano dipinti fiori, paesaggi, animali, saggi che meditavano sulle montagne o cavalcavano strani animali.
La porcellana nel periodo Sung
Durante la dinastia Song (960-1279) iniziò l’epoca classica della porcellana cinese. In questo periodo, presso le fabbriche di Ching-te-chen, nella provincia del Jiangxi, nel Sud-Est della Cina, iniziò la produzione di tazze, scodelle, piatti, giare quasi prettamente monocrome. Apparvero in questo periodo porcellane di colore verde giada che divennero famose con il nome di céladon, termine che deriva dal personaggio di un romanzo francese del XVII secolo che era sempre vestito di verde. Questi pezzi, grazie alla loro perfezione, sono andati a ruba dai giapponesi e rifiutano di venderli.
La porcellana nel periodo Ming
Durante questo periodo, 1368-1644, gli artigiani hanno cercato di mantenere alto il livello dell’arte della porcellana raggiunto durante la dinastia Song e quasi ci riuscirono. In questo periodo apparvero le porcellane azzurre e bianche e monocrome gialle dette “gusci d’uovo“.
La porcellana nel periodo Qing
Durante le guerre che posero fine alla dinastia Ming le fabbriche di Ching-te-chen furono distrutte e furono ricostruite durante l’ascesa al trono di uno dei più illuminati sovrani della Cina, Kangxi, che governò dal 1661 al 1722. Gli artigiani riuscirono ad imitare le forme del periodo Ming e riuscirono a creare nuove forme e divennero maestri nell’arte della porcellana monocroma. Se non conoscete la Gaiwan qui un articolo per conoscere la tazza con coperchio.
La ceramica in Europa
La produzione della porcellana in Europa è iniziata solo vero il 1470 dai veneziani, arte che appresero dagli Arabi durante le Crociate. Nel 1840 le industrie inglesi cominciarono a fabbricare porcellana scadente a Canton e la esportarono con il nome di “cineserie” in tutta Europa. Le fabbriche di Sèvres in Francia, di Meissen in Germania e di Burslen in Inghilterra imitarono la lavorazione cinese. Con l’introduzione delle macchine abbassarono il costo di produzione e s’impadronirono sempre di più del mercato ma non riuscirono mai ad eguagliare le forme più belle della porcellana cinese.
via La porcellana cinese — Viaggio Intorno al Tè, tea
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