Il Dio apolide

L’abdicazione di Akihito, ottenuta dopo una lunga trattativa con il governo, segna la fine di un’era di pace e prosperità, e di rinnovato, profondo rispetto per la famiglia imperiale. Al punto che sono in molti a chiederne la… “liberazione”.

Diciamo la verità: non è che siano personaggi famosi. Se chiedete a un giapponese, a meno che non sia uno storico o comunque un anziano letterato o studioso di cose imperiali, vi dirà che non li ha mai sentiti nominare. Eppure Kenzo Okuzaki (1920-2005) e Shichiro Fukazawa (1914-1987), che in vita non si sono mai incontrati (chi scrive ha avuto il privilegio di incontrarli entrambi) hanno, in qualche modo, lasciato una traccia. Sono tra i pochi che, nel dopoguerra, abbiano “combattuto”, sia pure in forma diversa, il sistema imperiale. Gli unici, forse, ad averlo fatto pubblicamente.Il primo, Kenzo Okuzaki, un reduce di guerra chiaramente turbato (un documentario a lui dedicato racconta di un inquietante episodio di cannibalismo avvenuto nella giungla della Nuova Guinea*) è diventato “infamoso” il primo gennaio 1960, quando dopo tutta una serie di azioni preparatorie (lettere ai giornali, volantinaggi davanti ai grandi magazzini e al parlamento) decise di “sparare” con una cerbottana alcuni proiettili di piombo contro la vetrata del Palazzo Imperiale, proprio mentre Sua Maestà Hirohito e la sua famiglia erano intenti a salutare la folla per i tradizionali auguri di Capodanno.

Più volte arrestato, non è mai riuscito a ottenere il suo scopo: quello di approfittare del suo processo per riaprire, o meglio aprire, visto che non è mai stata affrontata in un’aula di tribunale, la delicata questione del senso sekinin: le responsabilità dell’Imperatore per la tragica guerra combattuta in suo nome, e che ha provocato oltre trenta milioni di morti, tre dei quali giapponesi. Dichiarato incapace d’intendere e di volere – una condizione raramente riconosciuta ai criminali comuni: il Giappone è il paese dove si processano, si condannano a morte e si giustiziano anche gli infermi di mente accertati – divenuto quasi una macchietta per i rotocalchi, Okazaki è morto a casa sua, dove si era costruito una cella con tanto di sbarre, chiavistelli e bugliolo, e dove sosteneva che prima o poi avrebbe rinchiuso l’Imperatore.

Subito dopo la guerra l’Imperatore Hirohito, “graziato” dagli americani, decise di compiere numerose visite nel paese distrutto, talvolta accolto da proteste. Diverso il caso di Shichiro Fukazawa, brillante e promettente scrittore. Ma con il vizio della satira. Nel 1956, a poco più di trent’anni, s’era aggiudicato il prestigioso premio Akutagawa con il suo primo romanzo: Narayama Bushiko (La Ballata di Narayama), uno struggente racconto di come le donne anziane, nei villaggi, giunte a settant’anni si facessero accompagnare in montagna dai figli e si lasciassero poi morire di fame. Per evitare di costituire un “peso” – e una bocca in più da sfamare – per la famiglia.

Dal suo romanzo furono tratti ben tre film, uno dei quali, diretto da Shoei Imamura, s’aggiudicò la Palma d’oro a Cannes, nel 1983. Nel 1960, poco dopo il fallito “attentato” di Okazaki all’Imperatore, Fukasawa comincia a pubblicare, sulla prestigiosa rivista Chuo Koron, a puntate, un’esilarante, oramai introvabile, novella satirica: Furyu Mutan, Un sogno bizzarro. A seguito di una solenne sbronza, un povero operaio sogna l’insognabile: il popolo inferocito che invade il Palazzo Imperiale, insegue per i corridoi i suoi inquilini e spinge giù dalle scale Akihito (all’epoca principe ereditario, attuale imperatore fino al primo maggio). Durante la caduta, la testa del principe si stacca, e rotolando giù per i gradini emette il suono di una lattina vuota… rattan – ratta – rattan.

La destra non gradisce e dopo pochi giorni un gruppo di fanatici nazionalisti dà fuoco alla casa dell’editore della rivista, tale Koji Shimanaka. Il quale però non è in casa: nell’incidente muore una domestica e resta gravemente ustionata la moglie. Shimanaka coglie il messaggio: vende la rivista (che ancora esiste, ma ha perso mordente) e si ritira a vita privata in un tempio. Anche Fukasawa “capisce” e… sparisce: vagabonderà per molti anni in giro per il paese sotto falso nome, guadagnandosi la vita come chindoya (menestrello), prima di trovare rifugio in una vecchia fattoria gestita da alcune ex ballerine e prostitute, in periferia di Tokyo. È l’ultimo caso di satira sferzante registrato in Giappone. Dopo di lui, è calato il silenzio.

Chiedo perdono per questo lungo preambolo, ma lo ritengo fondamentale per inquadrare, dal punto di vista storico e, se vogliamo, anche politico, la “lunga marcia” del tenno-sei, del “sistema imperiale”. Un sistema costruito nei secoli a uso e consumo delle famiglie di “potenti” che di volta in volta “regnavano” sull’arcipelago e che di davvero “storico” ha poco o nulla (l’attuale dinastia, che probabilmente non è nemmeno quella legittima può farsi risalire, con generosità, al massimo al XIV secolo, e non al 600 a.c, come sostiene la storiografia ufficiale). Un sistema bizzarro e affascinante, come vedremo, le cui origini fanno ancora azzuffare tra loro un pugno di studiosi (anche stranieri) e che continua, innegabilmente, a costituire l’unico vero, efficace “collante” di un popolo senza origini, umile e coraggioso, capace di superare ogni sorta di disgrazia, sia essa provocata dalla natura che dagli uomini. Un popolo oggi profondamente preoccupato e disorientato, e che di fronte all’inadeguatezza – per usare un eufemismo – dell’attuale classe politica, si stringe sempre di più attorno alla famiglia imperiale, mai come oggi amata e rispettata.

Un recente sondaggio della radiotelevisione di stato attribuisce all’imperatore un indice di gradimento dell’82 per cento, più del doppio dell’attuale premier Shinzo Abe, che pure è diventato il più longevo del dopoguerra. Curioso: i membri della famiglia imperiale, che – come vedremo – giuridicamente non esistono, non hanno documenti, un cognome, un passaporto e dunque non possono votare né essere votati, se si candidassero vincerebbero a mani basse contro qualsiasi politico.

Eppure, se nell’immediato dopoguerra gli americani non avessero deciso – contro il parere dei loro alleati più importanti, da Stalin a Churchill – di graziare Hirohito e mantenerlo, sia pure come mero “simbolo”, alla guida del paese, il sistema imperiale oggi non esisterebbe più. A differenza di quanto sostiene la narrazione ufficiale, l’imperatore era considerato dalla stragrande maggioranza dei giapponesi il vero, unico responsabile della guerra, ed un eventuale referendum istituzionale – sul tipo di quello tenutosi in Italia – avrebbe sicuramente visto prevalere i sostenitori della repubblica.

È quanto sostiene ad esempio Yuki Tanaka, storico prolifico ma i cui testi sono all’indice (lui supplisce con un’intensa attività di blogger), autore di una lettera aperta all’imperatore Akihito, proprio alla vigilia della sua abdicazione, in cui lo ringrazia per aver restituito dignità alla figura imperiale, ma non rinuncia a contestarne la legittimità:

Lei, “signor” Akihito ha sicuramente svolto onestamente il compito che le affida l’attuale costituzione, ma è la sua figura istituzionale che non era e non è accettabile, ed è per questo che anziché abdicare in favore di suo figlio, avrebbe dovuto abdicare e basta, annunciando la fine di un sistema obsoleto, iniquo ed in contrasto con la stessa Costituzione che lo istituisce.

Sembra – e forse lo è – un discorso troppo complicato, ma non bisogna essere esperti giuristi per comprendere che i primi due articoli della cosiddetta Legge Imperiale koshitsu tenpan, quelli che stabiliscono l’ereditarietà e la successione esclusivamente maschile dell’istituzione violano l’art.14 della Costituzione, che pur essendo sempre stata considerata una sorta di “corpo estraneo” (fu scritta e imposta dagli americani, durante l’occupazione) sancisce l’eguaglianza dei cittadini e vieta ogni discriminazione in base al sesso, al censo e al credo religioso.

8 agosto 2017. L’imperatore Akihito annuncia il suo desidero di abdicare in favore del figlio

Dall’abdicazione alla “consacrazione” del nuovo imperatore: un “rito di passaggio” misterioso e affascinante, ma costituzionalmente controverso

Abbiamo già detto che i membri della famiglia imperiale – attualmente diciotto persone – non hanno né un cognome, né un documento d’identità personale che ne attesti data di nascita, sesso, domicilio, professione. Da esseri divini, o comunque come tali percepiti, i pronipoti di Amaterasu, la Dea del Sole, sono diventati, di fatto, degli apolidi, sia pure di lusso. Giuridicamente parlando, non essendovi traccia della loro esistenza, non sono “cittadini”. Il loro primo nome, spesso scelto ancor prima del concepimento e in genere non dai genitori, e la loro data di nascita, risultano solo dal kotofu, un antico registro di volta in volta aggiornato a mano, di cui esistono solo tre copie e al quale hanno accesso solo pochissime persone, tra le quali il Gran ciambellano di turno e il Sommo sacerdote della Jinja Honcho, l’associazione che riunisce i templi shintoisti, la religione animista locale non più di stato ma tutt’ora molto popolare e, almeno formalmente, molto seguita. La stessa associazione che custodisce i preziosi – e misteriosi perché nessuno, tranne gli imperatori (e nemmeno tutti, pare) li hanno mai visti – sanshu no jingi, le cosiddette “tre insegne” imperiali: il Sacro Specchio, la Spada e il Gioiello. A suo tempo, narrano le leggende che però in Giappone coincidono con la storia, e come tale sono insegnate a scuola, appartenute alla Dea del Sole Amaterasu, bizzosa progenitrice dell’impero, e di volta in volta, attraverso dettagliati quanto improbabili passaggi deliziosamente descritti nel kojiki, sorta di Bibbia shintoista scritta in stile boccaccesco, pervenuti di volta in volta ai suoi 125 successori.

Tre oggetti, due dei quali sono certamente copie recenti (uno, la Spada, fu certamente perduta in mare nel 1185, durante la battaglia di Dan-no-Ura, l’altro, il Sacro specchio è custodito nel Tempio di Ise e, ammesso che ci sia davvero, non è stato mai spostato di lì ) che in occasione del senso, una segretissima e controversa cerimonia (non è pubblica, ma è finanziata dallo Stato, nonostante l’attuale Costituzione sancisca la rigorosa distinzione tra Stato e Chiesa, fatto che di recente ha provocato le inaspettate, pubbliche proteste del principe Akishino, fratello del principe ereditario, strenuo sostenitore della laicità dello stato e da sempre critico di ogni tentativo di strumentalizzazione religiosa e politica della famiglia imperiale), sono consegnati, mostrati o molto più probabilmente semplicemente “indicati”, senza nemmeno svolgerli dal loro prezioso involucro di tessuto, al nuovo imperatore, nelle ore immediatamente successive alla morte (o abdicazione) del suo predecessore. E pare che sia proprio il senso la cerimonia più importante del lungo, costoso e affascinante “rito di passaggio” che inizia il primo maggio, il giorno dopo l’abdicazione di Akihito, e terminerà, dopo oltre una settantina di eventi più o meno pubblici, a fine novembre, con il sontuoso daijosai, che si potrebbe tradurre con il termine “consacrazione”. Una lunga e complicata cerimonia, per la quale il governo – tra mille polemiche per il già citato conflitto costituzionale – ha stanziato l’equivalente di circa duecento milioni di euro. E parte della quale si svolgerà davanti ai capi di stato e di governo che per l’occasione saranno invitati (in occasione dell’ultima consacrazione, quella dell’attuale imperatore Akihito, furono oltre un centinaio gli ospiti stranieri) e che prevede anche una bizzarra – ma ufficialmente e istituzionalmente prevista con apposito budget e predisposizione, all’interno del Giardino imperiale, di una piccola capanna di legno con tanto di letto nuziale, il seiza – visita notturna della Dea del Sole, che per l’occasione si congiungerebbe carnalmente con il nuovo erede, perfezionando così il processo di transustanziazione, perché di questo, esotericamente parlando, si tratta, dello spirito divino.

Ultima visita al tempio di Ise per annunciare la sua abdicazione agli Dei. In questa zona del tempio è strettamente vietato l’accesso alle donne, compresa l’Imperatrice

Sessione incesto-ierogamica a parte, argomento che di certo non interessa – ammesso che ne abbiano contezza – i cittadini e che non viene certo dibattuto sui giornali (ma è descritto fin nei minimi dettagli nel pressoché sconosciuto, ma affascinante, saggio di Fosco Maraini, Agape Celeste) tutto ciò la dice lunga sulla presunta, anche se costituzionalmente espressamente negata, origine divina che un manipolo di funzionari del kunaicho, l’impenetrabile Agenzia imperiale (poco meno di mille dipendenti, venti cuochi, venticinque musicisti, trenta giardinieri, dodici “sacerdoti” e 42 tra medici e infermieri, ma “appena” duecento milioni di budget, meno del Quirinale e di Buckingham Palace, poco più di un euro al giorno per contribuente) continuano di fatto a sostenere e tentare di proiettare all’esterno, a proposito della dinastia regnante.

“Regnante” poi si fa per dire perché nella lunga storia giapponese sono ben pochi e rigorosamente circoscritti i periodi in cui l’imperatore, quasi sempre figura ieratica e sacerdotale, ostaggio dei veri potenti, ha avuto – e di fatto esercitato – un potere diretto. Una condizione, quella di “ostaggi” istituzionali, che di fatto s’avvicina molto a quella di veri e propri “prigionieri”, soprattutto se si pensa alle durissime condizioni di vita all’interno del Palazzo e all’assenza pressoché totale delle più elementari libertà personali: al punto che il già citato Yuki Tanaka, forse esagerando, parla di “riduzione in schiavitù”, una sorta di crudele nemesi piombata su una dinastia usurpatrice e come tale meritevole di “divina” punizione.

Anche la Costituzione, definendo l’imperatore semplice simbolo dell’unità del popolo e attribuendogli compiti, spesso pesanti per numero e durata (oltre un migliaio l’anno) esclusivamente di rappresentanza, senza alcun sia pur minimo potere politico (scioglimento delle camere, incarico di formare il governo, rifiuto di firmare leggi e decreti, persino piccoli ma significativi privilegi come la concessione di una grazia) come quelli normalmente concessi ai sovrani delle monarchie costituzionali o ai semplici capi di stato, sembra imporre solo doveri, senza riconoscere non solo alcuna prerogativa o privilegio, ma neanche alcun diritto. Non solo, mentre fino a prima della guerra la casa imperiale giapponese era tra le più ricche del mondo, oggi Akihito e la sua famiglia non posseggono proprietà personali, né conti in banca. Vivono, come dire, di “stipendio”, e nemmeno altissimo.

Akihito  visita il tempio di Isa, “basilica” dello Shintoismo, preceduto dal Gioiello e dalla Spada

Come avviene in Italia, dove l’inquilino del Quirinale guadagna circa la metà del segretario generale, l’appannaggio di Akihito non arriva a un terzo di quello del jijucho, il Gran Ciambellano. Nonostante la recente entrata in vigore di una legge sulla trasparenza degli atti e dei bilanci pubblici, il kunaicho non fornisce i dettagli delle singole indennità. Ma secondo Yohei Mori, ex membro dell’esclusivo circolo della stampa imperiale, autore di un libro che anziché garantirgli un aumento di stipendio l’ha costretto ad accettare il pensionamento anticipato, dei circa duecento milioni di euro che lo Stato stanzia ogni anno per il mantenimento della Casa imperiale, l’imperatore può contare, per le sue spese personali, su cinque milioni di yen, circa 45mila euro, mentre i suoi figli su appena due milioni, meno di ventimila euro. Motivo in più per apprezzarne il grande sacrificio, la generosità, la volontà di fare di tutto per liberarsi di un passato che sia in patria (per le responsabilità mai accertate del padre Hirohito) sia per molti vicini (Cina, Corea) ancora non passa. Ma che la vita “a corte” sia tutt’altro che facile – al punto da aver costretto l’imperatore a chiedere il “permesso” (concesso, vale la pena ricordarlo dopo ben due anni di “trattativa” con il governo, che inizialmente non ne voleva sapere) di ritirarsi a vita privata – è un fatto noto, anche se poco affrontato dalla stampa locale.

Panoramica della residenza imperiale a Tokyo

E questo ci porta ad affrontare, come ha fatto di recente lo scrittore australiano Ben Hills, autore della controversa biografia della principessa Masako, per molti anni vittima di una grave depressione causata proprio da quelle che Hills definisce “medievali” condizioni di vita, il delicato aspetto dei diritti umani dei membri della casa imperiale. Al momento, diciotto persone, dopo l’uscita della principessa Sawako, unica figlia dell’imperatore che ha di recente trovato un marito (e un cognome…) e la situazione di imbarazzante stand by imposta a un’altra principessa, Mako, figlia del principe Akishino, cui la Casa imperiale (non i genitori, che pare sarebbero anche d’accordo) ha negato per ora il permesso di sposare un giovane “commoner”, in quanto la madre è fortemente indebitata con l’ex marito e si teme che la “liquidazione” che i membri della famiglia imperiale ricevono quando abbandonano il “palazzo” possa essere utilizzato per saldare i suoi debiti. Cosa apparentemente, quanto inspiegabilmente, inaccettabile.

Accettabile sembra invece che i membri della famiglia, compresi i più giovani, non godano della minima libertà personale. Che non possano uscire liberamente, sia pure con tanto di scorta, non possano decidere, senza adeguato e dettagliato preavviso, come passare il proprio tempo libero. Nel suo libro, Ben Hills racconta – per averlo appreso da fonte sicura, la sorella – che alla principessa Masako, un’ex diplomatica che parla tre lingue ed è abituata a girare il mondo da sola, i funzionari avevano persino sequestrato il telefonino, adducendo motivi di sicurezza.

La verità è che a differenza del reali di tutto il resto del mondo, che oltre a una serie di doveri hanno numerosi privilegi e sono liberi di condurre la propria vita e divertirsi – spiega David Mc Neill, che da molti anni segue le vicende della famiglia imperiale giapponese per conto della stampa inglese – quelli giapponesi sono vittime sacrificali di un sistema assurdo e anomalo. Persone colte, gentili ed educate, tenute in ostaggio da gente senza scrupoli, storicamente insensibili al concetto di diritti umani e legati a vecchie, ma tutt’ora pericolosamente condivise, ideologie di presunta unicità e supremazia della nazione. Il tutto aggravato da una stampa asservita e ossequiosa, incapace di fare il proprio dovere. E che racconta le cose a noi, sapendo di non poterle pubblicare. Negli ultimi tempi, tutte le notizie più delicate, dal fidanzamento del principe ereditario alla fecondazione assistita della principessa Masako e la sua depressione sono state pubblicate dalla stampa inglese, che dai tempi di Carlo e Camilla e del famoso “tampone” ha oramai perso ogni ritegno… ma pur sempre su input dei colleghi locali.

Masahiro Kanda, per anni membro del kisha kurabu , l’esclusivo circolo della stampa imperiale, conferma:

Il nostro è un lavoro umiliante. Siamo obbligati a presenziare a decine di briefing ogni giorno, a copiare le veline che ci passano scrivendo tutti la stessa cosa e non possiamo mai fare domande. E tutto questo per decisione dei funzionari, non certo della famglia imperiale, che più di una volta ci ha fatto chiaramente capire di avere le mani legate e soprattutto le bocche cucite.

Kanda dice anche un’altra cosa: che negli ultimi tempi la situazione è peggiorata:

Prima i funzionari della Casa Imperiale erano buracrati del ministero degli esteri, o discendenti delle varie famiglie nobili del paese. Persone intelligenti, educate, ragionevoli…

E ora?

Ora sono tutti poliziotti, tutti provenienti dalla questura centrale.

Un ex ambasciatore italiano in Giappone, uno dei pochi ad aver avuto la fortuna di poter scambiare qualche parola in libertà con l’Imperatore, in occasione del pranzo di congedo (oggi si usano solo brevissime udienze in piedi) ricorda:

L’imperatore mi chiese quante città avessi visitato, nel corso del mio mandato, e quando gli risposi una ventina lui commentò, sospirando, che a lui non era concesso viaggiare in libertà, e che doveva semplicemente rispettare gli ordini del governo. Usò proprio la parola “ordine”. In inglese. E ricordo la tensione, tra i funzionari presenti, ogni qualvolta l’imperatore usasse termini inglesi.

fonte: https://ytali.com/2019/04/24/il-dio-apolide/

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